Voce su Rosalia Pipitone
Rosalia Pipitone, 24 anni, chiamata Lia dai conoscenti, perse la vita in seguito a un agguato compiuto il 23 settembre 1983 in una farmacia di Palermo. La giovane era figlia del boss del quartiere dell'Arenella, Antonino Pipitone.[1][2]

Uno scorcio dei "Quattro Pizzi", palazzina quadrangolare neogotica presente nel quartiere Arenella di Palermo (di Rino Porrovecchio, licenza CC BY-SA 2.0)
L'episodio venne inizialmente catalogato come una rapina finita male. La vittima, ostaggio dei rapinatori, fu colpita da diversi colpi d'arma da fuoco. Tuttavia la vicenda destò molte perplessità per le modalità di esecuzione. Soltanto negli anni successivi, grazie alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, si riuscì a fare luce sul caso.
Rosalia aveva deciso di separarsi dal marito, con il quale aveva avuto un figlio, ma questo non era consentito dalle regole di Cosa Nostra. L'intenzione della giovane sarebbe stata quella di continuare una relazione extraconiugale che, secondo le voci dell'epoca, portava avanti da tempo con un cugino di secondo grado. La situazione aveva gettato enorme discredito sul padre Nino, boss dell'Acquasanta.
A risentirne furono anche i vertici dell'organizzazione mafiosa che vollero punire quel comportamento che diffuse non poche maldicenze sul conto della famiglia. Al padre della venticinquenne sarebbe stata comunicata la decisione di eliminare la figlia e lui non si sarebbe minimamente opposto, avallando di fatto l'esecuzione. Così venne premeditato l'omicidio e inscenata la rapina allo scopo di uccidere Rosalia.
Nel 2003 nuove indagini portarono all'arresto di Antonino Pipitone con l'accusa di essere il mandante dell'uccisione della figlia.[3] L'uomo però, nonostante il rinvio a giudizio, fu successivamente assolto per insufficienza di prove.
Tuttavia una nuova inchiesta,[4] avviata in seguito alla pubblicazione nel 2012 della storia della vittima in un libro scritto dal figlio,[5] condusse nel luglio del 2019 alla condanna a 30 anni di reclusione per i boss Vincenzo Galatolo e Nino Madonia.[6][7] Non si poté procedere invece nei confronti del padre Antonino perché nel frattempo era deceduto. La sentenza fu confermata in Appello nel giugno del 2020.[8]