Voce su Giulia Galiotto
Il corpo senza vita di Giulia Galiotto, 30 anni, fu ritrovato nella notte tra l'11 e il 12 febbraio 2009 nel greto del rio Ardinale, corso d'acqua del fiume Secchia, a poche centinaia di metri di distanza dall'abitazione in cui la donna risiedeva insieme al marito, Marco Manzini, 35 anni, a San Michele dei Mucchietti, frazione del comune di Sassuolo in provincia di Modena.[1][2]
La Chiesa di San Michele a Sassuolo dove sono stati celebrati i funerali di Giulia Galiotto (su concessione di BeWeB)
In un primo momento sembrava essersi trattato di un suicidio, ma l'attività investigativa in poche ore concentrò i sospetti nei confronti del marito della vittima. In particolare fu l'ultima telefonata della trentenne ad escludere l'ipotesi suicidaria: Giulia riferì a sua sorella che Marco l'aveva invitata a cena fuori e le aveva chiesto di raggiungerlo a casa dei genitori di lui per consegnarle un regalo.
L'uomo fu rintracciato al pronto soccorso dell'ospedale di Sassuolo mentre si faceva medicare una ferita, poi fu accompagnato in caserma per essere ascoltato dai Carabinieri. Inizialmente raccontò della sua preoccupazione per il probabile suicidio della compagna. Con il trascorrere delle ore però, già nel pomeriggio del 12 febbraio, crollò e confessò di aver ucciso la moglie e di averne gettato il cadavere nel fiume.[3]
La versione rilasciata dal marito riferiva di una lite con la coniuge nel corso della quale lui avrebbe perso il controllo fino a ucciderla a sassate. Nel corso dell'aggressione si fratturò la mano sinistra, motivo per cui si recò al pronto soccorso dove venne scovato dai militari. Nell'interrogatorio di garanzia, svolto nei giorni seguenti, l'uomo si avvalse della facoltà di non rispondere. Il giudice per le indagini preliminari non convalidò il fermo, ma dispose comunque la custodia cautelare in carcere.[4][5]
La Procura di Modena lo accusò di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. Secondo le ricostruzioni, aveva attirato con l'inganno la moglie nel garage dei genitori di lui, sapendo che questi non erano in casa, munendosi previamente di un sasso adeguato a colpire la donna con almeno sette colpi. Poi ripulì la scena del crimine, trasportò in auto il cadavere fino al greto del fiume per simularne il suicidio. Si liberò degli strumenti utilizzati per la messa in scena gettandoli in cassonetti, dove furono in seguito ritrovati dagli investigatori.
Ebbe anche il tempo di lavare l'auto prima di dirigersi a casa. Inviò un messaggio al cellulare della moglie in cui scrisse "Mi spiace, sono stato molto duro prima al telefono, ma non fare cazzate, chiamami". Dopodiché telefonò ai genitori di lei riferendo della preoccupazione per il fatto che la donna non fosse rientrata a casa e che non gli rispondesse al telefono, mostrando loro anche un biglietto in cui lei avrebbe paventato "non ho più motivo di esistere".
La coppia si era sposata nel 2005. Lui era originario di Scandiano (Reggio Emilia) e lavorava come perito elettrotecnico. Lei invece era impiegata in un locale istituto bancario. Dalle indagini, e in particolare dalle testimonianze dei genitori e della sorella della vittima, emerse che il rapporto tra i due coniugi era in crisi da almeno un anno. La trentenne era decisa a separarsi se suo marito non le avesse dimostrato di volersi impegnare nella loro relazione e nei progetti che avevano fino ad allora condiviso.[6]
Uno scorcio di San Michele dei Mucchietti, frazione di Sassuolo in provincia di Modena (di S'ciopacrest, licenza CC BY-SA 4.0)
L'imputato fu rinviato a giudizio in rito abbreviato. La pubblica accusa chiese la condanna a 30 anni di reclusione.[7] La difesa invece chiedeva di escludere l'aggravante della premeditazione e di riconoscere il vizio parziale di mente. La perizia psichiatrica,[8] disposta dal giudice per le indagini preliminari, concluse che: "il sig. Manzini Marco non è portatore di nessuna infermità che possa incidere sulla capacità di intendere e volere, ma ha agito in preda ad un forte scompenso emozionale, che ai sensi dell'art. 90 c.p. non rileva ai fini dell'imputabilità".
Il giudice presso la Corte d'Assise di Modena con sentenza del 20 dicembre 2010 condannò l'imputato a 19 anni e quattro mesi di reclusione per omicidio volontario aggravato dal rapporto di coniugio e occultamento di cadavere, escludendo tuttavia l'aggravante della premeditazione.[9] Il 28 marzo 2012, in Corte d'Appello, il ricorso presentato dalla Procura fu dichiarato inammissibile mentre quello presentato dall'imputato venne rigettato.[10]
Il 17 settembre 2013 la Corte di Cassazione dichiarò inammissibili i ricorsi e rese definitiva la condanna.[11][12] Nel settembre del 2022 Manzini ottenne la semilibertà dopo circa 13 anni di reclusione in carcere.[13]
Riferimenti.
Alla redazione della presente voce ha collaborato principalmente la dottoressa Maria Dell'Anno, autrice del libro:
• "E 'l modo ancor m'offende. Voci di donne vittime di femminicidio", Edizioni San Paolo, 2022.
La madre di Giulia Galiotto, Giovanna Ferrari, ha raccontato il processo all'assassino di sua figlia nel libro:
• "Per non dargliela vinta. Scena e retroscena di un uxoricidio", Edizioni Il Ciliegio, 2012.[14]
La storia di Giulia è stata anche trattata nelle seguenti pubblicazioni:
• Natascia Ronchetti, "Il rituale del femicidio", David and Matthaus, 2016
• Stefania Prandi, "Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta", Edizioni Settenove, 2020