Voce su Maria Concetta Romano
Maria Concetta Romano era una ragazza di 19 anni trovata morta nel pomeriggio di venerdì 20 agosto 1993 in una roggia comunicante con il canale della Muzza nei pressi di Lavagna, una frazione del comune di Comazzo in provincia di Lodi.[1][2]
Uno scorcio del ponte sul canale Muzza a Lavagna di Comazzo in provincia di Lodi
A scorgere il cadavere fu un pescatore di passaggio nella zona, che notò un fagotto avvolto da varie corde all'interno del canale idrico. I Carabinieri intervenuti sul posto rinvennero il corpo seminudo della vittima, senza slip, chiuso in due sacchi dell'immondizia, con numerose lesioni, tracce ematiche e il volto fasciato con del nastro adesivo. Gli investigatori avanzarono in prima battuta l'ipotesi della violenza sessuale, che però fu subito esclusa nel giro di poche ore all'esito dei primi accertamenti.
Il giorno dopo, 21 agosto, una delle prime persone ad aiutare i Carabinieri nel riconoscimento del cadavere sarebbe stata una delle due sorelle della diciannovenne. Anche la madre della giovane, Rosalia Quartararo, 39 anni, contribuì al riconoscimento della salma, recandosi all'obitorio di Melegnano e dicendo di aver appreso dai giornali che era stata trovata morta una ragazza che assomigliava alla terza figlia. La donna sotto shock fu ricoverata in ospedale per un malore, ma poche ore più tardi venne convocata in caserma dai Carabinieri insieme al convivente Giuseppe Redaelli, 43 anni.
Dopo lunghe ore di interrogatorio, i due crollarono e rivelarono le proprie responsabilità. L'uomo ammise di aver aiutato la donna nell'occultamento del cadavere, dopo aver trovato Maria Concetta morta in casa. La trentanovenne, messa alle strette in seguito alle ammissioni di Redaelli, confessò di aver picchiato la figlia fino ad ammazzarla, poi convinse il convivente ad aiutarla a far sparire il corpo senza vita della vittima.[3]
Per comprendere il contesto in cui si svilupparono i fatti, gli inquirenti dovettero scavare nel passato della rea confessa. Rosalia Quartararo nacque a Guarnaschelli, un quartiere del comune di Palermo, in una famiglia con otto figli. L'infanzia e l'adolescenza per lei non furono semplici. Il padre considerava le figlie femmine come un peso e le maltrattava. La stessa in una testimonianza disse: "Quando seppe che ero nata femmina, mi voleva uccidere e buttare in un canale di scolo per i maiali".
A 12 anni tentò di liberarsi dagli abusi sessuali che lei attribuì ad uno dei suoi fratelli maggiori, ma fu ostacolata dall'omertà della madre, preoccupata di evitare uno scandalo. Rosalia cercò di fuggire da quell'ambiente traumatico e, quando a 23 anni ne ebbe l'opportunità, si allontanò dalla famiglia per sposarsi con un concittadino dal quale ebbe tre figlie, tra cui Maria Concetta, l'ultimogenita. Quel matrimonio però non durò molto, il marito l'avrebbe persino maltrattata. Successivamente, sempre a Palermo, la donna conobbe un muratore che le chiese di trasferirsi al nord. Lei accettò, ma in Lombardia scoprì che l'uomo era sposato e lui tornò dalla moglie.
Rosalia Quartararo si ritrovò dunque di nuovo sola con tre figlie da crescere. Ma proprio nel milanese incontrò Giuseppe Redaelli, un mungitore di un'azienda agricola che si propose di fare da patrigno alle bambine. Nemmeno quella relazione andò a gonfie vele, però la donna continuò a convivere con lui in una modesta cascina di via Giuseppe Collini a Bisentrate, una frazione della periferia meridionale del comune di Pozzuolo Martesana in provincia di Milano.
Il tempo passò e le figlie divennero maggiorenni, ma le prime due scapparono da Bisentrate appena ne ebbero la possibilità. Una di loro accusò persino Redaelli di molestie, ma sul caso non ci furono denunce tali da far scattare un procedimento giudiziario. Con Rosalia e Giuseppe rimase dunque soltanto Maria Concetta. La giovane con la maggiore età assunse un comportamento da donna indipendente che non fu però ben accetto dalla madre, contrariata da quello stile di vita definito "libertino", in particolare per l'abitudine della ragazza di rientrare a casa tardi a notte fonda.[4][5]
Negli ultimi tempi Maria Concetta si era legata ad una guardiacaccia del Milanese, Rosario Loria, 52 anni, conosciuto in un ristorante dove lei lavorava come cameriera. Per l'uomo si trattava di una relazione extraconiugale. Il cinquantaduenne era sposato, padre di tre figli e nonno di due nipotini. I due volevano convivere sotto lo stesso tetto, ma non avevano una sistemazione stabile. La giovane aveva lasciato il lavoro da cameriera che aveva svolto in alcuni locali della zona, mentre Loria aveva finito i soldi per pagare l'albergo dove si erano stabiliti per un po'.
Secondo le ricostruzioni dell'epoca, nell'obiettivo di continuare la loro relazione, Maria Concetta e Rosario fecero credere a Rosalia Quartararo che il guardiacaccia era innamorato di lei. Quell'inganno era solo un pretesto affinché i due amanti potessero stare più tempo insieme. La madre della ragazza inizialmente si illuse che fosse tutto vero, poi scoprì il sotterfugio e cercò di vendicarsi.[3]
Lunedì 16 agosto 1993 la trentanovenne andò a denunciare la scomparsa della figlia Maria Concetta Romano dai Carabinieri, riferendo che la giovane non era rientrata a casa e stava "con un uomo di 50 anni". Secondo gli inquirenti, la premeditazione dell'omicidio partì proprio da quel frangente. La diciannovenne poi ritornò dalla madre, portandosi dietro anche l'amante Rosario. Rosalia Quartararo accettò che il guardiacaccia si fermasse a dormire nella propria abitazione e, per non destare sospetti tra la figlia e il convivente, gli aveva concesso di occupare la camera degli ospiti.
Giovedì 19 agosto, dopo aver passato una serata fuori casa, i due amanti tornarono a dormire nella cascina di Bisentrate. Quella notte i due l'avrebbero passata insieme, nella stanza accanto a quella di Rosalia. Per la trentanovenne fu l'ennesimo affronto. La mattina seguente, 20 agosto, Giuseppe e Rosario uscirono per andare al lavoro, mentre a casa rimasero da sole madre e figlia. Quando Maria Concetta si alzò dal letto, le due cominciarono a discutere animatamente e, al culmine di un violento alterco, la madre iniziò ad aggredire la figlia.
Prima la prese a botte in testa con uno spazzolone, stordendola e riempiendola di lesioni che macchiarono il pavimento di sangue, poi le strinse una corda intorno al collo, strangolandola fino a ucciderla. Secondo l'autopsia, la diciannovenne non riuscì nemmeno a difendersi. Dopo averle tolto la vita, Rosalia Quartararo avvolse la testa di Maria Concetta con del nastro adesivo, le legò mani e piedi con delle corde e avvolse il corpo in dei sacchi per la spazzatura.[3]
Di lì a poco Giuseppe Redaelli tornò a casa dopo aver terminato il proprio turno di lavoro e scorse nell'abitazione il fagotto che conteneva il cadavere della figliastra. La convivente lo intimò di aiutarla a liberarsi del corpo senza vita di Maria Concetta. Lui, remissivo, si adoperò per trasportarlo fuori e caricarlo nell'auto in cortile, ma furono visti da un vicino di casa mentre posizionavano la sagoma nel veicolo. I due si diressero a Lavagna di Comazzo, dove viveva la madre del quarantatreenne. Il cadavere fu gettato in una roggia della zona, nella speranza che fosse trascinato dalla corrente nella Muzza fino all'Adda, ma poche ore più tardi fu trovato da un pescatore che allertò le forze dell'ordine.
Nel frattempo Rosalia ed il convivente erano tornati nella cascina di Bisentrate. La trentanovenne aveva cercato di lavare tutta la casa con la candeggina, nel tentativo di cancellare ogni traccia. Redaelli invece si occupò di lavare l'auto, buttando via anche i tappetini dell'abitacolo che si erano macchiati del sangue di Maria Concetta.
In serata i Carabinieri avviarono le indagini per identificare la vittima e ricostruire la dinamica dell'accaduto. La notizia del ritrovamento si diffuse e, il giorno dopo, sabato 21 agosto 1993, ne parlarono i principali quotidiani nazionali. Ricevuta la voce che la giovane trovata morta avrebbe potuto essere una delle sue figlie, Rosalia Quartararo nella tarda mattinata si presentò all'obitorio di Melegnano per confermare il riconoscimento della sua ultimogenita. Dinanzi ai presenti sul posto, la donna disperata diede in escandescenze, fingendo di non sapere quello che era davvero successo, ma fu tutta una messinscena.[4][5]
La trentanovenne ebbe un malore e collassò. Per lei fu necessario il trasferimento in ospedale. Nel frattempo i Carabinieri perquisirono la cascina di Bisentrate dove non poterono fare a meno di sentire un forte odore di candeggina. Nonostante i lavaggi eseguiti dalla padrona di casa, gli investigatori riuscirono comunque a isolare delle tracce di sangue della vittima. I militari si insospettirono sempre di più quando il vicino di casa rivelò di aver visto il giorno prima i due conviventi trasportare un "fagottino" nell'auto e che, alcune ore più tardi, Redaelli si era messo a lavare la macchina.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, gli inquirenti convocarono e accompagnarono Loria, Redaelli e Quartararo nella caserma di Cassano d'Adda (Milano). Dopo lunghe ore di interrogatorio, nell'alternanza delle deposizioni, Redaelli crollò e raccontò la verità. Quartararo tentò di reggere fino allo sfinimento, ma si arrese dopo le ammissioni del convivente. La donna confessò di aver picchiato a sangue e strangolato la figlia. Disse di averlo fatto perché "non era corrisposta da Rosario Loria", l'amante della diciottenne.[1][2]
Nelle prime ore del mattino del 22 agosto 1993, la donna fu trasferita nel carcere di San Vittore a Milano con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. Redaelli fu invece accusato di favoreggiamento e concorso in occultamento di cadavere.
La procuratrice di Lodi, Carmen Manfredda, spiegò in una dichiarazione alla stampa il movente del delitto: "Una mistura di gelosia e risentimento nei confronti della figlia. Erano entrambe innamorate della stessa persona". "Dopo essersi illusa – continuò Manfredda –, la donna aveva scoperto che la corte del guardiacaccia era solo una finzione inscenata anche con l'accordo della figlia per potersi frequentare". La sostituta procuratrice Vincenzina Greco aggiunse: "Era un contesto familiare difficile, un ambiente di particolare degrado materiale, culturale e morale".[1][2]
Intanto il fascicolo d'indagine, inizialmente aperto alla Procura di Lodi, fu poi trasferito per competenza territoriale alla Procura di Milano. Nei mesi successivi Rosalia Quartararo fu rinviata a giudizio e nei suoi confronti fu confermata la contestazione dell'aggravante della premeditazione. Nel corso del processo, però, l'imputata ritrattò parzialmente la prima confessione fornita ai Carabinieri e respinse la versione sostenuta della pubblica accusa, secondo la quale la donna aveva compiuto il delitto perché la figlia aveva una relazione con Loria.
La signora Quartararo negò il suo interesse per Loria, parlando invece della discussione avuta la mattina del 20 agosto 1993 con la figlia in casa, durante la quale la madre cercava di convincere la giovane a lasciare il guardiacaccia: "Non volevo che Maria Concetta stesse con un uomo più grande di lei, volevo che si sposasse, che avesse una famiglia. Non volevo che facesse la vita che avevo fatto io". La donna dunque ammise di aver avuto un alterco con la ragazza, fino ad aggredirla, ma senza aver mai avuto l'intenzione di ucciderla: "L'ho picchiata, poi ho visto il sangue e mi sono spaventata. Mi sono abbassata e ho visto che era morta".[6][7]
Loria nei primi interrogatori davanti ai Carabinieri aveva suggerito l'ipotesi che la madre della sua giovane amante fosse invaghita di lui. Però nelle deposizioni in aula, nel corso del processo, lo stesso guardiacaccia non confermò pienamente quelle dichiarazioni, dicendo di "stentare a ricordare".
Nel dibattimento di primo grado furono ascoltate in aula anche le due figlie maggiori dell'imputata, che spiegarono di aver dovuto scappare di casa per uscire da quell'ambiente di degrado che si viveva nella cascina di Bisentrate. La primogenita se n'era andata con il compagno, con il quale aveva fatto un figlio e poi si era sposata. Pure la seconda si allontanò, dicendo che in casa la picchiavano e i soldi andavano tutti alla "madre-padrona".
Al termine del processo di primo grado, il 25 marzo 1994, Rosalia Quartararo fu condannata all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano. La sentenza escluse l'aggravante della premeditazione, ma riconobbe quella del rapporto di parentela con la vittima. A Redaelli invece fu inflitta una pena a 2 anni e 6 mesi per favoreggiamento e concorso in occultamento di cadavere.[6][7]
La Chiesa della Natività della Beata Vergine Maria a Pozzuolo Martesana in provincia di Milano (di Geobia, licenza CC BY-SA 3.0)
Negli anni della detenzione, nonostante la condanna passata in giudicato, la donna continuò a respingere la verità processuale. Nel libro "Vincolo di sangue," scritto da Gianluca Arrighi, l'ultimo legale che l'aveva accompagnata nella fase esecutiva dell'ergastolo, venne ricostruita una versione alternativa del delitto secondo cui Rosalia Quartararo non voleva difendere l'improbabile amore per il compagno della figlia.[8]
Maria Concetta Romano, piuttosto, era una "figlia difficile", ribelle, incontrollabile, aggrappata sentimentalmente ad un uomo molto più grande di lei. La rea, d'altro canto, proveniente da una storia personale molto travagliata, era una madre incapace di controllare le proprie rabbie e i propri fallimenti, e cercava di fare in modo che la figlia non ripercorresse i suoi stessi errori.[9]
Nel 2013, in occasione delle festività natalizie, dopo venti anni ininterrotti di detenzione in carcere, Rosalia Quartararo ottenne per la prima volta un permesso premio che le consentì di uscire per 12 ore dalla casa circondariale di Bollate. Il provvedimento fu concesso dal magistrato di sorveglianza di Milano. La donna, all'epoca sessantenne, trascorse il 25 dicembre in un'associazione di volontariato dove ebbe anche modo di pranzare con una delle sue altre due figlie.[10]